C’è un filo sottile, creato dalle parole, in grado di collegare il possibile all’impossibile, il limitato all’illimitato, l’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. La parola, resa materia su carta dal poeta-artigiano, diventa veicolo di significati reconditi, di verità ancestrali, di bellezza.
Leggere Calvino significa penetrare in un tempo (invero non molto lontano) in cui la scrittura non era soltanto una vocazione o un esercizio di stile o un passatempo sofisticato. Leggere Calvino significa essere partecipi di un tempo in cui la scrittura si faceva messaggio, il messaggio si faceva poetica dispiegata e la poetica si faceva vita pulsante.
Ne “I Castelli dei Destini Incrociati” Calvino propone una soluzione letteraria all’angoscia kierkegaardiana derivata dall’umana apertura al possibile, che genera incertezza e paralisi. Di fronte alle infinite possibilità dell’umano noi, piccoli e finiti, percepiamo la sconfitta dell’uomo: la vertigine generata dalla libertà di scelta è, di fatto, fonte di travaglio e disperazione. Calvino utilizza questa base filosofica per motivare le ragioni delle sue scelte letterarie e le successive soluzioni proposte dalla sua rivoluzionaria narrativa.
Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un’ossessione divorante, distruttrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio, vengo risucchiato dall’infinitesimo, dall’infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell’infinitamente vasto.
In queste righe tratte dalla lezione sulla Leggerezza contenuta nelle Lezioni Americane (Mondadori, 2011) Calvino ci fa sedere accanto a lui, davanti alla sua scrivania e al foglio bianco e, prima di accingersi a scrivere, posa la penna, ci guarda negli occhi – autore davanti al lettore- e ci confida i suoi dubbi, le sue paure. In poche parole, la sua paralisi di fronte alle infinite possibilità della letteratura. Calvino ci dice che vorrebbe tanto cominciare a scrivere ma che non sa cosa scegliere, quali personaggi, quali ambienti, quali situazioni. E’ uno scultore dinnanzi al blocco di marmo grezzo, che tanto ama e ammira ma che non vuole scegliere di plasmare in un modo e in uno soltanto.
Il Castello dei Destini Incrociati, scritto nel 1973, 15 anni prima delle celebri lezioni pubblicate per la prima volta nel 1988, rappresenta il tentativo (riuscitissimo) di fornire una traduzione in termini narrativi di queste speculazioni filosofiche e poetiche. Trovatisi per ragioni inspiegabili all’interno di un castello, i personaggi creati da Calvino si avvalgono di un mazzo di tarocchi e, disponendo coerentemente le carte in un ordine da loro deciso, raccontano a turno la propria storia, ognuno proseguendo sulla trama di carte realizzata dal precedente narratore-personaggio. Il risultato è un intricato labirinto di storie che ha la sua realizzazione grafica nella configurazione delle carte disposte sul tavolo.
Ricavando da Ariosto l’ambientazione medievale, i personaggi e l’intreccio complesso, e da Boccaccio l’idea di una cornice all’interno della quale sviluppare ulteriori linee narrative, Calvino, in una trama inestricabile in cui rimangono impigliate matematica, filosofia, letteratura ed esoterismo, realizza la sua sfida al labirinto, che non è altro che una sfida alle infinite possibilità della narrativa, e quindi alle infinite possibilità della realtà.
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