LA NEVICATA DEL ’56 (Castelvecchi, 2022) dalla quarta di copertina: Alberto, studente di Antropologia, raggiunge la frazione di Pian del Pizzico, arroccata sulla montagna reatina, nel febbraio del 1956. La grande nevicata stravolge il suo progetto di ricerca e, bloccato e isolato, il ragazzo deve contare sulla propria intelligenza per affrontare la vita reale, diversa da quella condotta sino a quel momento. Si ritrova così in un ambiente ostile e gli avvenimenti lo segneranno per sempre: Alberto dovrà convivere con la consapevolezza di aver commesso qualcosa di grave. Dietro la normalità, dietro una vita serena, può esserci un passato con cui, prima o poi, toccherà fare i conti.
Giancarlo Bufacchi, l’autore – classe 1940 – ha avuto una lunga esperienza nell’editoria nel settore della promozione, distribuzione, controllo ispettivo e direzione di libreria. Si può dire che abbia attraversato l’editoria dall’epoca del boom economico fino a oggi. Non è nuovo a prove d’autore, già in precedenza per Newton Compton. Il ‘mistery’ di Giancarlo è molto ben scritto. Da un punto di vista letterario sono chiari i riferimenti, mai affettati, a Dostoevskij, Cesare Pavese e del primo Moravia, forse anche per un certo immaginario, per il modo di percepire una realtà, che nel caso di questi ultimi autori è pertinente alla cultura italiana, al modo di vivere e stare al mondo del nostro Paese. Da un punto di vista più moderno lo sviluppo di questo libro mi ricorda altre confluenze di tipo cinematografico: certe atmosfere di Tinto Brass (solo il modo di pensare le ambientazioni retrò, perché il libro non è di genere erotico o sentimentale), ma soprattutto con il genere ‘mistero’ e thriller del cinema spagnolo tra gli anni ’90 e gli anni ‘0, e volendo anche alcune discrete americanate con Nicholas Cage.
Il libro snocciola qualche sorpresa. Pian del Pizzico diventa luogo di snodo della vita del protagonista. Accade infatti di andare in un posto per caso, per ricerca, studio lavoro o vacanza, e questo diventa fulcro di scelte, accadimenti e cammini esistenziali. La realtà metropolitana del protagonista qui si fonde con enclavi culturali e arcaiche. Alberto è figlio della borghesia, ma sottotraccia ha impulsi che lui stesso non conosce, e che inconsapevolmente cercano l’occasione per esprimersi. Succede relativamente spesso che ciò che ci accade è specchio profondo della nostra natura. Ed è anche prova, percorso, risonanza. Sia chiaro, di fondo Alberto è anche un ottimo ragazzo, ma forse in esso ci sono i prodromi di una certa Roma borghese e criminale che troverà poi espressione nei decenni successivi.
È interessante anche un po’ l’elemento femminile nel romanzo. Alberto ha un rapporto estremamente positivo con il gentil sesso, anche più evoluto per i giovani della sua generazione, ma nel romanzo le donne sono ‘incidenti di percorso’, talvolta positivi, altre volte no, comunque sempre importanti, senza però mai che esse diventino elemento fondante della vita del protagonista, solo incroci.
C’è l’amicizia, sentimento che Alberto conosce ed è riconosciuto da esso. Dovrà molto a Giuliano.
Come critica al libro si può affermare che c’è qualche ridondanza inevitabile, non fastidiosa a Pian del Pizzico, quasi sempre relativa alla spola tra la casa di Barac (l’ospitante) e la Bettola con relative telefonate, o altre dinamiche del genere.
Curati i riferimenti culturali, sociali e urbanistici della realtà dell’epoca, con particolare riferimento a quelli romani.
Ho anche compreso perché questo interessante romanzo abbia avuto l’attenzione dell’Einaudi, essendo esso stesso in linea con il tenore storico delle sue proposte. È pubblicato dall’ottima Castelvecchi.
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