Qualche tempo prima avevo visto un film in cui dei cani lupo restavano intrappolati tra i ghiacci dell’Antartide; ogni animale aveva una propria psicologia e la storia analizzava i vari aspetti del loro comportamento. Ce n’era uno che nel film veniva chiamato Kuma. Kuma era un maschio adulto solitario che viveva da solo ma non perdeva mai il contatto col branco. Seguiva il resto della muta a distanza di pochi chilometri oppure li spiava dall’alto di una rupe, ma non condivideva nulla con gli altri cani. Ecco qua: io ero Kuma, ero un maschio adulto solitario ossessionato dalla gente, tanto dalla sua presenza quanto dalla sua assenza. Dovevo guardarla, la gente, sentirne l’odore, studiarla, ma nel momento in cui uno avesse deciso di accorciare le distanze sarei impazzito.
(pag.18)
Da anni ero curioso di leggere ‘Maschio adulto solitario’, e sono contento che questa lettura sia accaduta a fine anno, proprio perché è un libro nerissimo, allora è più facile pensare di relegarlo cronologicamente a ciò che sta tramontando, quindi al calante 2017.
Non riuscivo a leggere questo romanzo un po’ per impegni e un po’ perché quando lo cercai non lo trovai sottomano, essendo poi trasportato in altri lidi o letture.
Ero attratto dalla quarta di copertina, da una dinamica a me familiare, quella che ci rende continuamente parte degli altri e al contempo staccati da essi. In effetti c’era anche una immagine di me. Intorno a metà degli anni ’90 trascorsi un breve periodo di lavoro a Taranto, dove il libro è sostanzialmente ambientato. Avevo la curiosità di sapere come l’autore, nativo di lì, avesse metabolizzato quella realtà, che in parte ho conosciuto.
Taranto per me era la città arancione. In certi quartieri o lungo le arterie stradali si depositava (deposita?) una caligine rossastra dello stabilimento siderurgico, poi l’area delle acciaierie mi appariva affascinante, con quegli sbuffi, mefistofelici vapori percorrenti curiose traiettorie. Le luci arancio dell’area industriale dipingevano questi agenti come rigurgiti di pianeti remoti. In alto fiamme dalle ciminiere, in basso strade intrecciate con le ferrovie e misteriosi grovigli tubolari.
Il libro narra l’avventura esistenziale di Danilo Colombia (alter ego di Cosimo Argentina), che passa da un allucinante servizio militare al lavoro al nord presso una fabbrica di tonno in scatola fino a cercare un imprecisato riscatto sociale attraverso la laurea in giurisprudenza.
La cosa che ho trovato nell’accurata scrittura è quel gusto grottesco e pantagruelico, a volte ‘grasso’, dello spirito tarantino, che si fa umorismo. Sempre efficace.
La vita di Colombia è circondata da mostri, figure miserevoli, simboleggiate da quello che può essere definito il suo contraltare, ovvero il capitano Corva prima – durante la leva -, che diventa il capo area della fabbrica Corve dopo, fino a divenire l’avvocato Corvo, dove Danilo svolge il suo apprendistato. Tutti personaggi differenti che però possono essere considerati una stessa pasta. Il Corva blob che diviene un modo di essere, di esistere qualunque cosa faccia. Il Corva c’è ovunque, in qualsiasi ambiente. E anche quest’ultimo è un po’ a immagine del Corva di turno, quindi pessimo.
Sì, c’è molta Taranto in questo libro, pure attraverso l’analisi in chiave narrativa di una città piena di piccoli litigi, questioni condominiali irrisolte, microcriminalità, piccole beghe e frodi assicurative, pasto quotidiano di avvocati e avvocaticchi, di un attivismo che spesso naufraga nell’assoluta indisposizione a investire in termini personali.
Taranto è una città che fa da pilastro all’economia italiana attraverso la produzione dell’acciaio a basso costo industriale e ad alto costo umano e con la presenza di un importante avamposto della marina militare. Attività che sostengono e drenano la città, poi c’è il comparto ittico e l’area commerciale del porto. Stigma quello industriale nel quale si è specchiata in passato nella dirimpettaia Crotone, che attraverso la Montedison fu uno dei grandi poli della chimica italiana. A Crotone peraltro nasce il romanzo di denuncia sociale, quello delle condizioni della vita in fabbrica.
Taranto è un luogo di grandi potenzialità, che ha una bella gioventù, schiacciata da una certa inerzia delle cose, seppur appare esagerato l’affresco di Argentina nel tratteggiare lo stato di degrado sociale e della criminalità degli anni ’80 fino ai primi ‘90. In quel breve periodo che fui a Taranto si era ancora all’acme di questa emergenza criminale e tutti coloro che incontravo dicevano di non azzardarmi a deambulare senza meta, specie a Taranto Vecchia e in certi quartieri, ma a me non è successo mai nulla, niente di sgradevole. Del resto Argentina è tarantino, comprendo il suo gusto piacevolmente deforme delle cose, che è una qualità del suo romanzo, scritto con uno slang misurato e con indubbia qualità stilistica e metaforica.
E’ un libro che sa essere disturbante in modo voluto. Fastidiose per esempio le violenze di caserma, che peraltro pongono l’accento su un problema reale, ovvero le violenze sessuali durante il servizio militare di uomini ai danni di altri uomini, di donne su altre donne, o di uomini su donne. Rilevanti per ragioni numeriche quelle tra lo stesso sesso maschile. E’ un fenomeno nato in questi ultimi decenni. Per noi che siamo la generazione della leva obbligatoria era consueto che si rimproverasse una ‘spina’ mettendo la cosa sul piano di una qualche azione di tipo sessuale. E’ una forma particolarmente malata di ostentazione del proprio potere, una sorta di delirio di onnipotenza. Certo, non mancano aspetti positivi dell’esperienza in caserma, anche a livello formativo, ma si può affermare che siano ben controbilanciate da un certo numero di idiozie.
Non riesco tuttavia a provare una significativa empatia con il protagonista, che a sua volta di tanto in tanto sa essere gratuitamente sgradevole, ma forse questo è un altro pregio del romanzo, come l’invenzione degli ‘Invisibili’, i defunti della famiglia che gli fanno compagnia tra le mura domestiche, come anche Sara, suo acerbo amore che si è suicidato. Di fondo però Danilo Colombia è un moralista, non concede nulla ai difetti degli altri, alle umane debolezze. Non sa che perdonarsi e accettarsi – certo, non indiscriminatamente – apre un mondo di possibilità. E anche per questo rimane in un limbo, che non è quello della solitudine ma di un orizzonte che rimane chiuso fino all’epilogo.
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