L’autore è un immigrato ebreo russo naturalizzato statunitense, che ha scritto romanzi in chiave grottesca, surreale, ironica e vagamente caustica e politicamente scorretta sulla condizione particolare di essere un cittadino del mondo di questo tipo, scrivendo di storie transculturali, che hanno come oggetto l’est e l’ovest. Questo è dal sapore smaccatamente autobiografico, con tanto di foto a scandire la crescita dello scrittore, dalla nascita fino alla scuola, il college, ecc.
Il romanzo è anche un flusso di citazioni, riferimenti alla cultura dei consumi e alle canzoni, troppo condensati in ogni singola pagina. Il padre rude ma di fondo affettuoso, la madre sempre vicina ma capace di silenzi lancinanti, le difficoltà di approccio con gli altri, il vecchio mondo russo e quello incipiente. L’aspetto interessante è quello socio-politico-antropologico di un’umanità che ha fatto parte di uno scambio tra Stati Uniti e Russia sul finire degli anni ’70, riguardante il sostegno dei primi con tecnologia e grano e dei secondi con l’erogazione di informazioni e ‘risorse umane’.
Gli ultimi capitoli sono più toccanti, emerge maggiormente un’empatia per questo nucleo familiare, che fa un viaggio insieme a Leningrado, la città natale. C’è un’amarezza dell’autore non del tutto chiara, non condivisibile. In fin dei conti parla di eventi e circostanze che in modo diverso fanno parte di ognuno di noi. Appare ingeneroso, astioso e esagerato nei confronti delle persone della sua vita, il fatto che secondo lui fosse ritenuto un ‘piccolo fallimento’. E’ una specie di sindrome di Biancaneve, ma al maschile, priva di veri riferimenti, di episodi illuminanti, di situazioni che invece in altre narrazioni appaiono chiare.
Tre stellette piene su cinque.